Orange, in provenzale “Arenjo”, è una splendida cittadina posta una ventina di chilometri a nord di Avignon, lungo la valle del Rodano. Dipartimento di Vaucluse.
L’Arco Romano, ed il Teatro della stessa epoca, sono pezzi di rara ed intatta bellezza, e considerati fin dal 1981, patrimonio mondiale dell’umanità dall’ UNESCO.
Il Teatro in particolare è fulgido esempio delle vaste e profonde conoscenze degli architetti dell’antica Roma. Pensate semplicemente alla genialita’ della “chiave di volta”, un sasso trapezoidale incastrato a completare le arcate, posto in modo tale da dare stabilità all’intero manufatto. Incredibile! Ebbene questo Teatro è stato costruito sfruttando le caratteristiche morfologiche del territorio, ed è addossato in parte alla collina di Sant’Eutropia. Contiene , e li conteneva anche allora, ben ottomila seicento spettatori. La sua notevole acustica, una delle migliori al mondo, lo rende il sito ideale per il festival musicale delle Chorègies-d’Orange. Rappresentazioni liriche, che ne fanno la più importante manifestazione Francese del genere e che malgrado l’acuto sciovinismo transalpino, pesca a piene mani nel patrimonio musicale italiano. Infatti, quella mia prima sera, io venni attratto dal coro di “Va pensiero”, cantato in italiano, che innalzandosi da quelle vetuste mura, si rovesciava nei vicoli fin dove si apriva la bella piazza provenzale con filari di tigli e lo spazio per la “pétanque”.
Luigi XV definì il grande manufatto che avvolge la collina : “ Il Muro più bello del mio regno”. Ed è proprio su quella maestosa parete di calcare, che si riflettono le onde sonore rimbalzando sulla falesia di Sant’Eutropia, rendendo magica l’atmosfera densa di suoni purissimi.
Era il primo giorno di una vacanza lungamente sognata. Tornavo in Provenza dopo più di dieci anni, ed era come tornare a casa. Sognavo da mesi la Camargue, i “flamants”, ( i famosi fenicotteri rosa), i piccoli cavalli bianchi e grigi che vivevano allo stato brado, i tori dalle corna appuntite, ed i loro guardiani, i piccoli aironi bianchi dalla testa rotonda, che laggiù chiamano: “garde boeuf”. Al solito viaggiavamo a vista, mai prenotato un albergo o una stanza in quegli anni. Il gusto della scoperta. Il piacere effimero della sorpresa. Mai più di tre giorni nello stesso posto, salvo poi rimpiangerlo, cosi anche allora.
Scendevamo lenti la valle del Rodano, quando il crepuscolo ci colpì con i suoi incanti. Un raggio di luce radente illuminò un grande tabellone con la foto del Teatro e la scritta Orange.
Ci fermammo convinti. Avremmo passato la prima notte in quel posto. Il primo impatto fu sconcertante, tutte le strade erano deserte, rumore di vento e poche note d’archi che questi portava.
Cominciammo al solito alla ricerca di una stanza per la notte, ma con il nostro crescente stupore, ed una giusta dose di perplessità, non riuscimmo a trovare nessun buco libero. Qualcuno finalmente ci indicò un possibile approdo. Era un vecchio albergo con una insegna logora in metallo arrugginito, nei pressi del centro. Capii solo il giorno dopo, tragicamente, il sorriso compiaciuto e sornione dell’anziano signore, che beveva pàstis alla luce fioca di un lampione, mentre osservava i giocatori di “pétanque” lanciare le loro piccole bocce lungo il vialetto ghiaioso del parco.
L’albergo era grande, e seppure vetusto, sembrava ben conservato. Ci ricevette un cinquantino dai capelli lunghi e grigi, raccolti in un codino. Mi osservò con curiosità e si soffermò con interesse ad
ammirare la mia giovane compagna. Mi chiese se rimanevamo tutta la notte, osservò con distacco il documento che tenevo in mano, poi con un gesto di diniego mi disse che non serviva. Avrei dovuto capire dai piccoli particolari tante cose. Prese i soldi che porgevo e mi dette due chiavi, una era di una porticina d’ingresso laterale. Salimmo all’ultimo piano, la camera sembrava in ordine, anche se grandi macchie di muffa ornavano le pareti inglobando una cornice, che sorreggeva una copia di un Rénoir. Nel piatto doccia, in pura ceramica craquelé, merito del tempo, non certo dell’artigiano che lo aveva costruito, un piccolo scorpione faceva le veroniche attorno ad una piccola pozza d’acqua rugginosa. Un gran colpo di ciabatta e ci mettemmo a ridere di gusto, le vacanze on the road sono anche questo e si sorvola sui piccoli imprevisti. In fondo sono particolari insignificanti.
Malauguratamente non controllammo il letto, perché la fame ci richiamava alla bisogna, quindi dopo aver assolto il compito dell’alloggio, ci tuffammo alla scoperta gastronomica della Vaucluse.
Ci guardammo intorno, il primo ristorante era vuoto e non c’era nessuno in giro, visto da fuori sembrava di classe. La mia domanda sembrava superflua, e forse un po’ ironica, quando chiesi se avevano un tavolo per due. La risposta invece mi gelò! Tutto prenotato, e non potevano fare eccezioni.
Altri tre tentativi dettero lo stesso risultato, locali tutti vuoti, tavoli apparecchiati, camerieri sfaccendati, ma nessuno che si degnasse di darci un po’ di cibo. La situazione era davvero un po’ kafkiana, e le mie certezze cominciavano a vacillare, anche perché nessuno ci dava spiegazioni allo strano comportamento. Svoltando in un piccolo vicolo, incrociammo una crèperie. Un ragazzo del Maghreb in piedi fumava solitario davanti all’insegna. Chiesi con una buona dose di sarcasmo se avesse un tavolo libero, e lui sollevò un poco il sopracciglio e mi puntò fisso due grandi occhi di pece, osservandomi con incredulità, poi si girò e con un inchino mi indicò la saletta vuota alle sue spalle. Mi disse che sarebbe rimasta così un’altra ora buona. Ma che sarà mai pensai, senza immaginare lontanamente l’importanza di quella manifestazione, paragonabile ai più grandi eventi musicali mondiali, anche se in lontananza sentivo le arie del Nabucco infilarsi prepotenti nei vicoli della città vecchia. Ma allora ancora non sapevo della magnificenza degli spettacoli che possono competere giustamente con quelli messi in scena all’arena di Verona, e che godono di prenotazioni che si conquistano a fatica e che i melomani rinnovano di anno in anno, compresi i tavoli dei ristoranti.
Non importa cosa sta succedendo lì fuori, pensai, finalmente si mangia!
Crépes, salate e dolci, solo crépes! Ma bene, per me prosciutto e formaggio. Lei invece, con aria da esploratrice, chiese la specialità della casa. Il moretto dalla pelle lucida, s’illuminò: “ Bene madame ci penso io!”. Dopo un poco arriva la mia pietanza ed io con galanteria divido il cibo con lei. Gustosa, sarà stata la fame ma era davvero buona. Non si capiva il gusto degli ingredienti, ma l’importante era ingurgitare qualcosa. Arriva la seconda. Un piatto enorme di sostanza giallognola e verdastra emanava un fetore, che appena il ragazzo si presentò sulla porta mi fece andare il boccone di traverso. Una espressione di disgusto si stampò sul viso della mia compagna. Sollevò con esitazione un lembo della frittata, ed una zaffata di miasmi infernali si espanse nella piccola sala. Formaggio alle erbe provenzali. Capii la situazione e scambiai i piatti. La mia curiosità mi portò ad assaggiare uno dei cibi più orrendi che mai mi sia capitato di mangiare. Il gusto era un misto di vomito e di sale amaro, e l’odore bruciava le narici! Zolfo, acido fenico… non riuscivo a capire. Roba da mal di testa.
Con un po’ d’imbarazzo chiesi un’altra crèpe al prosciutto e soprattutto di togliere dal tavolo quell’escremento di anfibio velenoso. Il ragazzo mise su un aria offesa, e mi disse che l’aveva preparata lui con i migliori ingredienti, usando ben tre tipi diversi di formaggi alle erbe. Roquefort, Picodon e Brillat Savarin, vedi un po’ questi Galli! Il meglio in commercio! Senza attendere oltre chiesi il conto e portandomi appresso la fame uscimmo disgustati nelle stradine deserte. Seguimmo la musica che ad ogni svolta diventava sempre più intensa, fino ad arrivare ad un Teatro romano, tra i meglio conservati. Meraviglioso! I custodi ci dissero che era l’ultima rappresentazione della stagione lirica e che la gente era dentro dal pomeriggio, per avere i posti migliori. Venivano da tutta Europa ed anche dagli Usa per assistervi. Ecco dove erano finiti tutti! Quasi diecimila persone erano li dentro, e tra poco si sarebbero riversate ad occupare i tavoli dei ristoranti, i bistrot, e gli alberghi che ci avevano negato ospitalità. Si sa che per gli amanti del genere il dopo teatro, a volte è meglio… molto meglio dello spettacolo a cui si è assistito. Con queste informazioni ed un gran brontolio di stomaco ci avviammo all’albergo. Distrutto ed affranto mi sdraiai sul letto. Un urlo mi uscì impetuoso dalla bocca! Le bestemmie le sentirono certo fino in cima al Mont Ventoux. Balzai dal letto con schiena perforata in più punti. Sollevai le lenzuola e scoprii un materasso a molle, con ferri arrugginiti ed appuntiti, che avevano lacerato la lisa fodera di crine. Scesi per fami cambiare la camera, ma l’albergo era totalmente deserto. Ci aspettava una notte insonne, cercammo di dormire incastrandoci ed attorcigliandoci negli spazi vuoti lasciati da quel simulacro di materasso a molle. L’alba ci ritrovò distrutti, pieni di graffi e di lividi. In compenso la doccia era gelata ed allora mi misi ad urlare senza ritegno in dialetto veneto e “scàpelament del conza”, ( il gergo dei seggiolai), tutta la mia acredine verso i Francesi, Orange, Napoleone, De Gaulle, spaziando da Robespierre a Lady Oscar, Platini e Maria Antonietta, e mi vergogno a dirlo me la presi anche con il Conte di Montecristo, Madame Bovary ed il Gobbo di Notre Dame. Chiedo venia a lor tutti!
Fosse finita! Portai i bagagli in macchina e mi avviai incazzato come una biscia a consegnare le chiavi. Una cameriera grandi forme con orecchini d’oro come cerchi di bicicletta, e sorriso stroboscopio d’ordinanza, ci offrì un bricco di caffè. Monsieur Coda di topo, arrivò con un fascio di baguettes sotto l’ascella odorosa. Affettò il pane e ce lo porse insieme ad una ciotola di burro giallo. Con la fame che mi ritrovavo, meglio che niente. Riuscii a malapena ad ingoiare un boccone, che il fratello maggiore di Sansone (l’alano dei fumetti), mi strappò il pane di mano, lasciandomi illeso solo per miracolo. Io ho paura dei cani. Partì un urlo di terrore con contorno di bestemmie in veneto-latino, e vista la collocazione geografica pure in occitano! Urla angosciate della mia compagna. Risate grasse della tettona e del pirata. Mi alzai affamato e strisciando con le spalle al muro, uscii da quel posto infernale tenendo sempre sotto controllo la belva bavosa, che nel frattempo si era impossessata dell’intero cestino del pane. Ero bianco come uno straccio e le gambe facevano fatica a sorreggermi. Il bucaniere si affacciò e ridendo mi disse che la colazione era gratis. Immaginate pure voi qual è stata la mia risposta! Vicino al parcheggio incrociai il vecchio signore che imperterrito beveva pàstis fin dal mattino, guardando i giocatori di pétanque e commentando i fatti della vita. Gazzetta vivente della città.
Mi vide e sollevando il bicchiere mi disse nel suo stramaledetto francese del sud: “ Ma allora cercavi proprio una stanza per dormire?”, poi guardando il mio viso devastato , ed ammiccando alla mia amica, “ ma non hai dormito molto…”. Ero troppo preoccupato di salire in macchina e di allontanarmi da quel posto terribile, per aver il tempo di mandarlo da tutti i suoi santi … Poi, rivolgendosi ad un giocatore aggiunse una frase che non capii, ma che penso di aver intuito. Senza saperlo avevamo dormito nell’albergo ad ore di Orange – Vaucluse, e l’ometto delle bocce era fermamente convinto che la bionda coscia lunga che stava al mio fianco non fosse la mia compagna, ma una presa dalla Route de Avignon, giusto per un sollazzo. A lei non l’ho mai detto ma il fatto che successe qualche sera dopo lungo le mura della città dei Papi dimostrò senza possibilità di appello che la mia “amata” di allora si vestiva davvero come una zoccola. Ma si sa l’amore è cieco, ma anche, che i vecchi avvelenati dal pàstis, seppur miopi ci vedono benissimo. L’abito non fa il monaco, ma suole a zeppa con tacchi alti e mini ascellari, fanno tanto “stradale” a qualsiasi latitudine. Devo purtroppo ammettere che la mia venere plebea, non brillava certo di eleganza, ma io più che essere imbarazzato di cotanta “Allure”, guardavo gli eventi che ci succedevano allora con curiosità e divertimento. Era tutta una scoperta quella fanciulla… purtroppo in negativo.
Dopo queste nefande esperienze, decisi che non sarei mai più capitato in quella città. Il fato invece ha voluto che tornassi accompagnato dalla stessa persona qualche anno dopo, e che decidessi di sfidarlo ancora.
Arrivai da sud questa volta. La sera provenzale era dolce, ed un tramonto memorabile si stampava in un caleidoscopio di colori sugli specchietti retrovisori , inebriandoci di luce a tinte forti. Parcheggiamo a ridosso del parco che confina con la via principale, all’ombra di olmi secolari, scansando gli immancabili giocatori di pétanque. Puntammo un ristorante con veranda coperta. Uno di quelli che anni prima avevano rifiutato di sfamarci. Ci fecero accomodare su di un tavolo d’angolo, e tra mille premure ci portarono la carta. Nel contempo accesero una grossa candela posta a centro tavola su di un candelabro di alabastro.
Il menù era rigorosamente provenzale ed il piatto consigliato era un misto di carni assortite con i legumi. Ordinai una bottiglia di Chàteauneuf-du-Pape. Il primo sorso mi fece sorridere soddisfatto, e già pregustavo una superba serata. Dopo un po’ portarono un immenso piatto di portata. Pezzi di carne in fogge strane nuotavano su un mare di verdure cotte e crude. I colori della tavolozza erano imbarazzanti. Più che ad un Van Gogh o ad un Monèt si rifacevano a qualche dadaista ubriaco. Rovistai nel vassoio alla ricerca di qualcosa di commestibile. L’odore era nauseabondo. Grossi pezzi di sanguinacci si mescolavano a carni scure,salame di fegato, animelle e pezzi di grasso di maiale, rancido. Il tutto insaporito con le consuete erbe provenzali, ma l’odore di timo, sovrastava di gran lunga tutti gli altri, esaltando a dismisura l’insieme di miasmi irrespirabili. Lei stavolta era stata previdente ordinando una banale entrecote . Anche se il contorno di legumi era al sapore di lavanda, la carne era commestibile, e poi dava un bel sapore di pulito in bocca! Per dirla tutta : Entrecote al Sapone di Marsiglia, l’igiene innanzitutto! Guardavo sconsolato il piatto smaddonnando alla mia triste sorte, quando improvviso si alzò in mio aiuto il mitico mistràl. Attorno agli alberi dall’altra parte della strada si alzarono mulinelli di polvere vorticosi. Il vento aumentò d’intensità e la fragile barriera di plastica trasparente si piegò in uno scricchiolio sinistro. Una folata più impetuosa abbatte un grosso vaso con un alberello di ligustro, che si rovesciò sul nostro tavolo spazzandolo come fosse una scopa di saggina. Fuggimmo all’interno del locale insieme agli altri avventori. Fuori i camerieri inseguivano tovaglie e vettovaglie. Il mio plateau di carne alla provenzale giaceva sconquassato a terra sulla pedana di legno, il candelabro d’alabastro copriva di cera striata i pezzi di carne.
I camerieri vedendomi in piedi con la preziosa bottiglia in mano ( quella almeno l’avevo salvata), si offrirono di prepararci un tavolo all’interno. Lei teneva il suo piatto riparato con un tovagliolo sopra. Approfittai del disastro per dire che mi sarei accontentato di una banale bistecca anch’io. Purtroppo l’unico piatto ancora disponibile ( e lo credo bene), era il mefitico plateau con carni alla provenzale. Non mi rimase che un dessert, da gustare con il vino forte. In compenso mi restò anche stavolta la fame, un conto salato da pagare e la certezza, mi dannassi l’anima, che ad Orange-Vaucluse non mi sarei fermato mai più ne a dormire, a mangiare, e nemmeno per pisciare, che il vento di maestrale dispettoso com’è, con i suoi vortici, sarebbe giunto all’improvviso, lordandomi sicuramente i vestiti. Brinderò comunque ogni volta che ne avrò l’occasione alla grande cucina francese, tanto blasonata, ma che non mi ha mai dato grandi soddisfazioni, e si che ho girato la Francia per il lungo e per il largo, ma campanilismi a parte, preferisco sempre e comunque un piatto semplice della cucina veneta a quelle pietanze dai nomi roboanti che sontuosi chefs dall’erre moscia hanno cercato di farmi ingurgitare troppe volte.
G.P.